Nella maggior parte dei territori italiani è estremamente difficile scegliere quali piatti consigliare, perché la tradizione italiana presenta tante soluzioni molto interessanti, alcune delle quali con un gamma di interpretazioni, all’interno della stessa provincia, estremamente variegate. Spesso è difficile anche attribuire una specialità ad un luogo preciso, perché le tradizioni non si sposano, nella maggior parte dei casi, con i confini amministrativi con cui classifichiamo oggi i territori. È il caso del prosciutto di San Daniele, conosciuto e apprezzato in tutto i mondo, il cui territorio istituzionale di appartenenza tocca il Tagliamento, il fiume che divide le province di Udine e Pordenone, una questione di pochi chilometri che non permette però agli abitanti della provincia di Pordenone di attribuirsi meriti e glorie di un prodotto che nasce in realtà anche oltre l’etichetta entrata nel vissuto popolare planetario. È anche il caso del Frico, un tortino caldo a base di formaggio, patate e cipolle, nato per riciclare gli avanzi di formaggio e la cui origine viene attribuita nella zona dei rilievi della Carnia, quindi in provincia di Udine, ma che è diventato simbolo di gran parte del Friuli. La prima testimonianza di questo piatto risale alla metà del Quattrocento, quando il Maestro Martino, che era il cuoco di Ludovico Trevisan, Patriarca di Aquileia dal 1439 al 1465, trascrisse la ricetta nell’opera “De Arte Coquinaria”. La ricetta è essenzialmente povera e nascendo da una scelta di riciclo presenta numerose varianti, in alcuni casi arricchite, in epoca moderna, da interpretazioni che ne rendono più nobile la composizione, tradendone però l’autenticità storica della ricetta. La parola frico sembra derivare dal francese fricot, termine che indicava un piatto a base di ortaggi cotti. Una storia che è di sicuro attribuita alla tradizione pordenonese è quella della Pitina, un prodotto tipico della Val Tramontina, nonché Presidio Slow Food del Friuli Venezia Giulia, la cui nascita viene attribuita in particolare ai borghi di Inglagna e Frasaneit. In origine la carne veniva triturata nella pestadora, un ceppo di legno incavato, assieme a sale, aglio, pepe nero spezzettato, realizzando così delle polpette di piccole dimensioni che, dopo essere state avvolte in farina di mais, venivano fatte affumicare sulla mensola del fogher, un focolare artigianale, spesso ricavato in un vano sormontato da una cappa adornata nel suo perimetro da una mensola. Nei tempi nostri l’affumicatura si realizza con diversi legni aromatici, in prevalenza faggio, con una stagionatura di almeno 30 giorni e il risultato può essere mangiato sia crudo che cotto. Un’indagine realizzata attraverso il coinvolgimento di esperti, ma anche di segnalazioni di semplici cittadini, per identificare il menu tipico che meglio si addice a Pordenone, indica la ricetta della “pitina in brodo di polenta” come quella più rappresentativa per questa specialità, in cui si esalta un connubio tra ingredienti poveri della tradizione.
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