Qualcuno dice che per scoprire la storia italiana in tutte le sue declinazioni servono un buon paio di gambe e un ottimo palato. La sola Reggia di Caserta impegna fisicamente ogni visitatore, sia per l’estensione del palazzo e del parco che la circonda, ma soprattutto perché ogni luogo al suo interno merita di certo una visita, seppur fugace. La tradizione è rispettata comunque anche al termine della visita, perché anche a Caserta, per comprendere la cultura e storia del luogo, è indispensabile una sosta in un ristorante locale. La nostra scelta per quanto riguarda il primo piatto è caduta su uno stufato che può essere interpretato come una diversa versione della caponata siciliana, realizzato con peperoni fritti con aglio, cipolla, patate, melanzane, peperoncino, pomodori ed erbette aromatiche, il tutto accompagnato dal pane tostato. Stiamo parlando della Cianfotta, un termine che significa semplicemente “miscuglio” e allude, non a caso, al misto di verdure che caratterizzano il piatto. In alcune varianti è presente anche la carne, per lo più manzo bollito, ma in questo caso il piatto viene a volte proposto come secondo; in sintesi, per le abitudini alimentari moderne, ci troviamo di fronte ad un ottimo piatto unico. Nonostante la ricca presenza di secondi piatti, il nostro consiglio non può che privilegiare il Maialino Nero Casertano, conosciuto ed apprezzato già in epoca romana, poi divenuto di grande successo, protagonista di importanti esportazioni, per poi essere quasi dimenticato, rischiando l’estinzione e salvato dalla caparbietà di alcuni allevatori che ne hanno difeso la presenza sul territorio. Vero e proprio simbolo della cosiddetta Terra di lavoro, oggi è entrato a far pare dei menù dei ristoranti più prestigiosi: deve la sua squisitezza delle carni al metodo di allevamento a uno stato semibrado, caratteristica molto ricercata negli ultimi tempi. Per il dessert ci spostiamo di una ventina di chilometri da Caserta, per gustare la Polacca Aversana, un dolce nato circa un secolo fa che deve il suo nome ad una suora di origini polacche che suggerì la ricetta a un pasticcere della zona, Nicola Mungiguerra, il quale ne fece una versione rielaborata. Siamo di fronte a un dolce la cui fama è rimasta prevalentemente circoscritta al territorio campano, ma non ha mai tradito la fiducia di chi ha voluto assaggiarla; si presenta come un guscio sottile di impasto tipo brioche, che viene farcito con abbondante crema pasticcera costellata da amarene sciroppate. Contrariamente a molti dolci campani, caratterizzati da gusti molto forti, in questo caso il successo nel palato è decretato dall’equilibrio di sapori molto delicati: a ogni morso si possono assaporare la croccantezza dello zucchero in superficie, la morbidezza della pasta, la setosità della crema, l’acidulo delle amarene.
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